Friday, January 28, 2011

I RINCARI DI ROMA E LA QUALITÀ DEL SERVIZIO

Salviamo i tassisti dal mal di rendita

Il mostruoso (+54% per i primi cinque chilometri) aumento delle tariffe dei taxi di Roma è una notizia che va oltre la questione specifica. È specchio di tre tendenze molto diffuse nel Paese, tutte preoccupanti. I trasporti, a Roma ma non soltanto, non sono considerati un servizio, bensì una rendita. E il passeggero, turista o residente che sia, non è un cliente o un utente; è un pollo da spennare, o una seccatura da evitare. Accade, arrivando a Fiumicino o a Ciampino, di sentirsi chiedere da un tizio: «'Ndo va?». Non vuol sapere dove andate. Vuol sapere se siete italiani o stranieri. Se la risposta è «what?», il taxi sarà subito pronto, magari per avventurarsi lungo il Grande raccordo anulare. Se rispondete «vado in centro» o «sono affari miei», trovare un'auto disposta a caricarvi e a portarvi a destinazione sarà un'impresa.

In tutto il mondo, il numero dei taxi segnala le dimensioni e il potere d'acquisto della classe media. A Mosca ce ne sono pochissimi: i ricchi hanno limousine con autista; gli altri vanno in metropolitana. A Berlino, a Londra, a New York ce ne sono moltissimi: il taxi non è considerato una bizzarria da viziati, ma un'opportunità per chi vuole evitare la trafila dei parcheggi, dei permessi, delle multe. La classe media italiana è strangolata da un'inflazione che torna a crescere, e colpisce in particolare quei piccoli consumi - bar, ristoranti, vacanze, viaggi brevi - che non sono lussi da sibariti ma il motore di un'economia come la nostra, che valorizza poco il suo straordinario potenziale turistico. Tra i principali freni dell'economia italiana c'è poi, com'è noto, la cappa corporativa. Provate a chiedere ai tassisti romani - o milanesi, dove corposi aumenti sono scattati da poco - se sono contenti delle nuove tariffe. In tanti sono preoccupati. Temono, o hanno verificato, di lavorare meno. Preferirebbero lavorare di più e guadagnare di più. Aspettativa che andrebbe incoraggiata, anche con la leva fiscale. Invece accade il contrario.

Non si tratta di colpevolizzare una categoria piuttosto che un'altra. Tanto più una categoria eterogenea come quella dei tassisti. A chiunque sarà capitato l'imbroglione e, in percentuale senz'altro superiore, il professionista corretto; l'energumeno che non vuole chiudere il finestrino a gennaio né abbassare la radio che informa a tutto volume sul mercato invernale della Lazio, e la persona deliziosa con cui aprire una conversazione. Dei tassisti si parla molto anche perché hanno un peso particolare pure in politica, per due motivi: possono bloccare una città, com'è accaduto non solo a Roma ma anche a Parigi; e sono rimasti - in una società parcellizzata come la nostra e in un tempo segnato dalla comunicazione a distanza - una delle ultime figure professionali a contatto con la gente, capace talora di veicolare un'opinione, un orientamento, il giudizio su un personaggio (quanto hanno giovato i tassisti milanesi a Formentini, e quanto i loro colleghi romani hanno danneggiato Rutelli?).


Questo peso politico viene usato, talora con spregiudicatezza, da una categoria che legittimamente si difende da una proletarizzazione che all'estero è ormai avvenuta. «Sapete perché sono aumentate le tariffe dei cab a Manhattan? Perché è aumentata pure la quota di iscrizione ad Al Qaeda» ride David Letterman, alludendo all'invasione di tassisti dai più remoti Paesi islamici. Noi restiamo affezionati ai nostri tassinari; purché il costo non continui a crescere in modo inversamente proporzionale alla qualità del servizio. A Manhattan parleranno pure un inglese strano, ma se indugi per strada si ferma un taxi a chiedere se per caso hai bisogno. A Fiumicino siamo fermi a «'ndo va?».

Aldo Cazzullo
27 gennaio 2011 dal Corriere della Sera

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